NAUFRAGIO

L'ambasciata italiana e la vergogna

 

pagina a cura di A. Pereira         

In tempi recenti, alcune ambasciate italiane sono state coinvolte in un grave scandalo relativo a sprechi di ingenti risorse finanziarie e retribuzioni inspiegabilmente iperboliche. Il brano qui riportato, tratto dal delicato e commovente racconto Sotto un cielo di pioggia, di Simonetta Po, descrive "l'interessamento e l'assistenza" dispensati dell'Ambasciata italiana e il "prodigarsi" dei funzionari per il recupero delle salme già localizzate. Sebbene sia narrato con toni esplicitamente edulcorati, e nonostante l'omissione degli episodi più riprovevoli, ne emerge un quadro sconfortante, che difficilmente aiuterà a giustificare le "ingenti risorse finanziarie" e le "retribuzioni principesche"

Il brano è decisamente lungo, se ne consiglia la lettura off-line.

(Nota: per riguardo alla sensibilità dei famigliari delle vittime, si è ritenuto opportuno non pubblicare integralmente questo lungo racconto poiché contiene numerosi momenti struggenti a volte apertamente drammatici. Chi ne fosse interessato può richiederlo in forma privata.)





SOTTO UN CIELO DI PIOGGIA
(cap. 7)

[…]

Mi chiedo che cosa succederà una volta atterrati.

Siamo preoccupati. Fin da quando abbiamo avuto i primi contatti con la guardia costiera siamo spaventati all'idea che la notizia del nostro incidente sia stata diffusa dalla stampa locale, che sia stata ripresa dalle agenzie internazionali, che qualcosa arrivi in Italia prima che i familiari dei nostri compagni, e i nostri, abbiano notizie precise da noi o dalle autorità italiane.

Non vogliamo che apprendano la notizia dai giornali o dalla TV, e purtroppo i media non sono molto scrupolosi quando hanno per le mani notizie che possano aumentare le vendite. Fin dall'inizio abbiamo dato solamente i nomi di noi sei, non abbiamo mai fatto quelli dei nostri compagni scomparsi. Sia perché tanti li conoscevamo solo con il nome di battesimo, sia per evitare che le famiglie possano trovare i nomi dei loro cari sui giornali. Adesso invece il momento della verità si sta avvicinando, dovremo comunicare quanto accaduto, dovremo essere a disposizione delle famiglie, forse ci sarà un'inchiesta della polizia.

Siamo esausti, avremmo bisogno di qualcuno che si prendesse cura di noi, che ci aiuti a fare chiarezza, che ci dia forza.

Atterriamo su una pista privata dell'aeroporto di Manila. Sono le otto di sera, l'incaricato dell'Ambasciata non è ancora arrivato e ci fanno accomodare nella saletta della compagnia "El Nido", quella dei giapponesi. Andrew si attacca al telefono. Riesce a sapere che a Pangalusian, dopo la nostra partenza, hanno recuperato il corpo di un altro dei nostri compagni. La marea l'ha portato sulla spiaggia. Dice che è un uomo, ha la barba. Non riusciamo a capire se si tratta di Giorgio o di Gigi; per un estraneo i due potrebbero assomigliarsi. Non ci danno notizie precise sull'abbigliamento, il dubbio rimane anche se pensiamo possa trattarsi di Gigi. Lui è stato il primo a scomparire, di conseguenza potrebbe essere stato il primo ad arrivare così lontano dal luogo dell'incidente.

I giapponesi sono gentili, ci preparano il caffè e ci guardano incuriositi. Siamo vestiti con quanto Andrew ci ha dato a Pangalusian, divise da mozzo di bordo: calzoncini corti e camicia, tutto in bianco. Solamente Emi, ancora attenta all'abbigliamento nonostante la situazione, indossa indumenti colorati. Se non fosse per l'età, lei e Flavio sono i più giovani, sembreremmo cinque scolaretti con la maestra.

Finalmente arriva l'incaricato dell'Ambasciata. È il Sig. R., cancelliere.

Ci stipiamo tutti nella Station Wagon, siamo noi sette più l'autista e Andrew. Giuseppe e io ci dobbiamo accomodare nel bagagliaio, la macchina è piccola. Questa sistemazione che fino a pochi giorni prima non mi avrebbe stupito né preoccupato più di tanto adesso mi disturba. Ancora una volta siamo sovraccarichi, fuori dai canoni di sicurezza, se facciamo un incidente, e nel traffico di Manila non è un'ipotesi così remota, noi due qua dietro siamo prigionieri. Il portellone si apre solo dall'esterno. Sto diventando un po' paranoica.

All'Ambasciata non c'è nessuno, il Sig. R. ci dice che gli uffici chiudono alle 14,00, adesso sono le 9 di sera. Ci fa accomodare in una stanza e vuole sapere quello che è successo. Cerchiamo di spiegarglielo ma non sembra molto sveglio. O forse siamo noi troppo confusi?

A turno ci attacchiamo al telefono, cominciamo a metterci in contatto con le nostre famiglie. Ognuno di noi ha un modo diverso di raccontare, dalle lacrime disperate di Flavio alla freddezza di Giuseppe, che quasi non accenna all'incidente nel timore di allarmare troppo sua madre. Io provo e riprovo, l'unica persona che posso rintracciare è mia madre che si trova in vacanza nella casa del mare. Abbiamo messo il telefono solamente quest'anno e non riesco ricordarne il numero. L'avevo scritto nell'agenda ma ho perso tutto, l'unica cosa che mi è rimasta è il costume da bagno che ancora indosso. La T-shirt gialla che indossavo al momento dell'incidente l'ho lasciata a Kiminawit. Mi dava la nausea solo il guardarla.

Finalmente, all'ennesimo tentativo, trovo la combinazione giusta e sento la voce di mia madre:

    «Ciao mamma, sono io...»

    «Finalmente! Aspettavo la telefonata tre giorni fa, perché non hai chiamato? Eravamo in pensiero...»

Avevo un appuntamento telefonico per il 25 agosto ma non ero riuscita a prendere la linea. Sapevo che erano in pena.

    «Mamma, è successo un incidente, sono all'Ambasciata a Manila. Non preoccuparti sto bene. Eravamo in barca, abbiamo naufragato. Nove miei amici sono morti. Ma io sto bene, non preoccuparti, ti dico che sto bene e sono all'Ambasciata.»

Non riesco ad aggiungere altro, non mi viene altro da dire. Sento mia madre che urla, sento le voci allarmate di mia cognata e di mia nipote dall'altra parte del filo.

    «E la Emi? Che cosa è successo? La Emi come sta?»

Continuo a tranquillizzarla, la Emi è con me, stiamo bene.

    «Mamma, lascio il telefono agli altri, io sto bene non mi sono fatta niente, siamo sei e siamo all'Ambasciata. Ti richiamo appena possibile»

Riattacco. Non le ho lasciato il numero dell'Ambasciata, non so ancora dove andremo a dormire. Mentre gli altri continuano a telefonare aiuto il Sig. R. a mettere giù due righe per il Ministero. Dice che bisogna comunicare subito la notizia dell'incidente, vuole i nomi degli scomparsi per allertare le procure, per fare arrivare la notizia alle famiglie.

I nomi non li sappiamo, bisogna farci spedire un elenco completo dagli uffici di "Avventure" di Roma, ma nessuno conosce il numero di telefono. Come sempre Andrew ci viene in soccorso. Ha il suo mazzetto di biglietti da visita dei vari "tour leader" di Avventure che sono transitati da Pangalusian negli ultimi mesi. Pietro prova e riprova i numeri dell'Agenzia, ma non risponde nessuno. Ormai sono le dieci passate, le tre in Italia, dovrebbero avere già aperto...

Il Sig. R. continua a scrivere il suo resoconto, è molto attento alla forma ma continua a essere impreciso nella sostanza. Cerco di correggere gli errori e di dirgli che non bisogna perdere tempo, i margini e le interlinee non hanno alcun valore, ci sono nove morti da recuperare, bisogna prendere contatti con le autorità filippine, organizzare le ricerche, bisogna far partire subito il comunicato per l'unità di crisi del Ministero non appena avremo l'elenco completo. Speriamo che a Roma siano solleciti.

Lui scrive di tifoni, di barche rotte, non riesce a capire la dinamica dell'incidente. Anche noi non riusciamo ancora a capacitarci di come l'imbarcazione abbia potuto capovolgersi. Queste barche a bilanciere lasciano supporre tutto meno che possano ribaltarsi, e invece la nostra si è rovesciata alla prima onda. Non riesco a spiegarglielo e lui mi fa innervosire. È proprio un "ministeriale".

Non mi rendo conto che forse, nella concitazione del momento, sono io a non essere chiara. Mi stufo e lo lascio all'impostazione della lettera. Scrivi un po' quello che ti pare, tanto i fatti non cambiano, purtroppo.

Torno di là e provo a richiamare "Avventure" a Roma. Sono fortunata, finalmente qualcuno risponde:

    «Mi chiamo Simonetta Po, gruppo Andrusiani delle Filippine partito il 5 agosto. Due giorni fa è successo un incidente, sono morte nove persone. Anche Andrusiani è morto. Siamo riusciti ad arrivare a Manila soltanto oggi. Ci serve immediatamente un elenco completo dei partecipanti, siamo alla nostra Ambasciata manda subito un fax.»

La ragazza vorrebbe sapere, ma non ho voglia di raccontare. Le dico soltanto che abbiamo naufragato. Per caso sono stata io la prima a dare comunicazione in Italia di quanto accaduto.


In attesa del fax dall'Italia il Sig. R. ci accompagna all'ospedale per i controlli e le medicazioni. Il Makati Medical Center è nuovo, pare sia il migliore di Manila. Nonostante l'ora tarda c'è molta gente in giro. Ci portano al pronto soccorso, una specie di corridoio con dei lettini divisi da séparé. A uno a uno veniamo controllati. I medici e le infermiere sono giovanissimi, hanno delle schede con disegnato sopra una sagoma del corpo umano: devono segnare con una crocetta tutti i punti dove intervengono con le medicazioni. Le nostre sagome sono campi di battaglia, tanto varrebbe fare una croce unica e non pensarci più. Il medico che mi sta controllando continua a ripetermi:

    «Ah italiani!! Pavarotti, Bagghio (Baggio), Ferrari! Tu ce l'hai la Ferrari?»

Ma certo che ce l'ho, che domanda! Sono anche amica di Paolo Rossi, te lo ricordi Paolo Rossi?

Vorrei che mi lavassero e disinfettassero bene i piedi, che mi togliessero un po' di spine che cominciano a suppurare, indosso ancora le ciabattine di gomma che mi aveva dato il vecchio filippino e le mie estremità sono sporche, piene di tagli e di spine. Il medico dice che non ce n'è bisogno, con gli antibiotici e la tintura si lava tutto. Sarà, ma almeno mettimi due bende.

Continua a spennellarmi accuratamente di tintura, senza preoccuparsi di togliere i corpi estranei. Però dedica particolare attenzione alla cicatrice di una operazione al ginocchio vecchia di dieci anni dalla quale è come affascinato. Chiediamo farmaci per continuare la profilassi antimalarica, Palawan è zona endemica e nel nostro vagare per la foresta siamo stati divorati da ogni specie di insetto. Ci guarda come se non avesse mai sentito parlare di questa malattia. Forse gli antibiotici e la tintura vanno bene anche per quella. O forse noi occidentali siamo troppo paranoici.

Ancora una volta mi sembra di essere in un film, ma questo è "Oggi le comiche". Nel corridoio, in mezzo a pazienti e parenti vari, con un apparecchio portatile stanno radiografando Giuseppe e Flavio. Luigino l'hanno completamente bendato, sembra una mummia, vorrebbe bere ma non arriva a portarsi il bicchiere alla bocca. Emi lo fa bere come se fosse un bambino piccolo. Pietro rifiuta di farsi toccare. Sa di avere le costole rotte, ma non vuole farsi radiografare.

Mettono i maschietti in fila nel corridoio, giù i calzoncini e via con una bella antitetanica. Noi femminucce, più previdenti e attente, ce l'eravamo fatta a casa prima di partire. Ci guardiamo e non riusciamo a trattenere le risate, ormai siamo isterici. Ci mancavano solo queste scene da "Dottori in allegria", i telefilm che guardavo da ragazzina, per completare l'opera. Prima di tornare all'Ambasciata mi faccio due calze con le bende che trovo su un carrello. Ci hanno dato una mano di tintura sulla sporcizia ormai penetrata nella pelle, una manciata di pillole verdi e blu, una antitetanica di sicurezza.

Luigino è mummificato. Hanno terminato l'opera con qualche altro bendaggio dove ritenevano che donasse di più, non in base alla ferite ma probabilmente ai canoni estetici. Non riusciamo a trattenerci, l'isteria e la tensione continuano a farci ridere a crepapelle. Alla fine torniamo in Ambasciata.

L'elenco è arrivato e possiamo trasmettere il comunicato al Ministero. Pietro scrive un nostro messaggio personale alle famiglie degli scomparsi. Vorremmo che le procure lo leggessero insieme al comunicato ufficiale, cerchiamo un modo per far capire a queste persone disperate che siamo loro vicini, che siamo a completa disposizione, di mettersi in contatto con noi. Il pensiero di quelle famiglie non ci ha abbandonato un istante da quando ci siamo salvati, dobbiamo in qualche modo far sapere che siamo con loro.

Chissà se i carabinieri lo avranno poi letto questo messaggio alle famiglie? O si saranno limitati a dare una notizia così drammatica nel freddo modo delle autorità?

Sapremo dopo che alcune famiglie hanno appreso la notizia dal telegiornale.

Il Sig. R. ci accompagna all'hotel che ha prenotato, sono quasi le due del mattino. Dice che l'indomani mattina possiamo andare all'ambasciata a piedi, sono solo pochi isolati. Siamo stanchissimi e doloranti, forse la macchina era meglio, ma nessuno ha voglia di discutere, adesso lasciaci soli.

Pietro non riesce a stendersi, ormai il dolore al torace è lancinante e decide di dormire sulla poltrona, seduto. Dormirà così ancora per quasi un mese. Prendiamo possesso delle nostre camere. Richiamo mia madre, forse è meglio tranquillizzarla.

È agitatissima. Mi dice che appena resasi conto dell'accaduto ha chiamato mio fratello giornalista RAI a Roma. La TV ha iniziato a dare notizie, ha diffuso i nomi di noi sei. Vorrei che la notizia non fosse stata divulgata troppo presto, forse le famiglie non sono state ancora informate, sarebbe terribile se imparassero dei loro cari dalla TV. I nomi degli scomparsi sono partiti da poco ma i genitori di Alessandra forse si ricordano il mio nome, mi collegheranno immediatamente alla figlia che non risulta nell'elenco dei superstiti.

E ancora la mamma di Angela, così anziana e sola. Lei sa che la figlia è partita con Flavio. Prego mia madre di non parlare più con nessuno. È una faccenda troppo delicata e i giornalisti ci sbraneranno. Mi stendo ma nonostante la stanchezza non prendo sonno. Continuano a passarmi davanti agli occhi le immagini delle ultime 72 ore, mi sembra di non dormire e non mangiare da mesi, sono così stanca che a volte ho l'impressione che il mio corpo non esista più, come se la mente se ne fosse completamente staccata.

Alla fine mi addormento.


Giovedì 29 agosto 1991

Veniamo svegliati prestissimo dalle prime telefonate di giornalisti. Maffettone dell'Ansa di Singapore ha già chiamato. Flavio ha rilasciato un breve resoconto dell'accaduto. Decidiamo di non parlare alla stampa fino a che non ci sia la certezza che tutte le famiglie sono state informate.

Siamo tutti d'accordo per parlare solo con l'Ansa, forse la voce più autorevole; eleggiamo Pietro, il più anziano e più saggio tra noi, quale portavoce ufficiale del gruppo.

Chiedo alla reception dell'albergo di farci avere per piacere degli spazzolini da denti e un pettine. Vorremmo metterci un po' a posto prima di andare all'Ambasciata. A quanto pare la richiesta è troppo complessa e cade nel vuoto. Pazienza. Ancora stravolti e stazzonati ci incamminiamo.

In effetti, gli uffici non sono lontani ma ogni passo è sofferenza e per percorrere quei pochi isolati impieghiamo un tempo lunghissimo. Siamo a Makati, il quartiere finanziario di Manila. Sembra quasi di essere a Milano. È molto diverso da Ermita e Mabini street dove avevamo alloggiato all'inizio del viaggio. La gente per strada si ferma a guardarci, dobbiamo essere uno spettacolo insolito. Divisa bianca, la pelle rossa di tintura, alcuni di noi fasciati a mummia, Flavio ha una ciabatta verde e una blu, dono dei pescatori filippini di Kiminawit. All'Ambasciata chiediamo cibo, siamo digiuni da un tempo infinito, l'ultimo pasto completo l'abbiamo forse fatto a Manila quattro giorni prima e non abbiamo un soldo per procurarci da soli la colazione. Ci dicono che non sono attrezzati per il cibo, possono darci solo un espresso.

Se non fosse per Andrew, nostro angelo custode materializzatosi all'improvviso con un sacchetto di banane e barre di cioccolato, rimarremmo digiuni chissà per quanto tempo ancora.

L'Ambasciatore in persona, Dottor Crema, ha chiesto di vederci, ma adesso è occupato. Dobbiamo aspettare. Il personale dell'Ambasciata, molti connazionali e qualche filippino, non si cura di noi. L'Ambasciatore ci riceve per cinque minuti, manco ci chiede che cosa è successo, come stiamo. Mi stringe la mano ferita, non posso trattenermi dall'imprecare con violenza.

Ci dice solamente che sono tempestati di telefonate da parte dei giornalisti, che dovremmo fare una conferenza stampa, farci fotografare. Poveri giornalisti, insistono tanto per avere una nostra foto! Ma sei scemo? Con tutto quello che c'è da fare, quattro corpi localizzati da recuperare, bisogna sollecitare immediatamente le autorità filippine per il recupero e continuare le ricerche senza perdere altro tempo. Dice che il generale tal dei tali è stato informato, manderanno l'esercito ma il tempo è brutto e il mare troppo mosso.

Ma se noi siamo usciti a piedi, scalzi e seminudi, non possono mandare i soldati a recuperare i tre corpi che i Casi hanno deposto sugli scogli? Abbiamo l'impressione che a questa gente non gliene importi niente. Ci guardiamo sconsolati, pensavamo che i nostri problemi pratici sarebbero finiti una volta contattate le autorità del nostro paese e invece siamo in mano a quello che ci sembra un branco di cretini.

Forse siamo noi fuori di testa, troppo presi e introvertiti in quel che ci è successo. Forse non ci rendiamo conto che esiste un iter da seguire, che siamo alle Filippine, che il caldo rende pigri e languidi. Forse avevamo troppa fiducia nelle nostre autorità, quelle che dovrebbero occuparsi dei connazionali in difficoltà.

L'unico che si cura ancora di noi è il solito Andrew, un privato cittadino filippino che ci ha preso sotto la sua ala per puro buon cuore, e che per ricompensa viene anche trattato male e con sufficienza dai nostri connazionali dell'Ambasciata, che quasi lo cacciano a pedate. Che vergogna. (Nei capitoli precedenti, è descritto come, saputo del naufragio di un gruppo di turisti, questo Sig. Andrew si sia prodigato per rintracciarli, li abbia ospitati e rivestiti, abbia contattato le autorità filippine e italiane, abbia comprato a sue spese i loro 6 passaggi aerei per la capitale e infine li abbia personalmente accompagnati per non lasciarli soli in un momento tanto doloroso – N.d.R.)

Il sig. R. ci dà 1.000 pesos a testa, facendoci firmare un documento in cui ci impegniamo a rimborsare lo stato italiano per l'anticipo concessoci. Il cambio è da strozzini. Un peso, al cambio ufficiale, è valutato poco meno di 50 lire. Ci danno quindi l'equivalente di 49.500 lire a testa, e ne pretenderanno 58.000. Dobbiamo restituire l'importo entro il 31/12. All'inizio di ottobre mi arriverà a casa una gazzella dei carabinieri con un'ingiunzione di pagamento dell'importo, cosa che tra l'altro avevo già fatto appena tornata.

Firmiamo e intaschiamo. Abbiamo fame e bisogno di vestiti. Ci concedono la macchina per qualche ora e, accompagnati dall'autista, andiamo ad acquistare quanto ci occorre. Ci servono anche le foto per il foglio di uscita, i nostri passaporti sono in fondo al mare con il resto dei bagagli e dei biglietti aerei. Ancora oggi, quando mi vengono in mano le copie di quella foto, stento a riconoscermi. A un grande magazzino del quartiere ci compriamo abiti, spazzolini e dentifricio, rasoi per i maschietti. Una signora filippina ci ferma e ci chiede se siamo missionari, un'altra se abbiamo avuto un incidente di macchina.

Ancora una volta ci prende il riso isterico, le comiche continuano. Da bravi fratellini istituiamo una cassa comune tra di noi e conveniamo che Giuseppe ha bisogno di un paio di occhiali da vista. È molto a disagio senza, ci vede quasi niente. Io ho meno problemi e rimando l'acquisto al rientro in patria.

Tornati all'Ambasciata ripiombiamo nella realtà. Le telefonate si susseguono, ancora giornalisti e le prime chiamate dei parenti delle vittime. Tutti ci dicono di portare in Italia i loro cari, di non lasciarli là, alcuni vorrebbero partire subito per venire a Manila. Ci ricordiamo che l'agenzia aveva in programma un'altra partenza per le Filippine dopo la nostra, forse c'è un gruppo che si sta apprestando a ripercorrere lo stesso itinerario, dobbiamo informarli prima che sia troppo tardi.

Gigi e i coniugi torinesi avevano lasciato parte del bagaglio all'hotel Aurelio, quello dove di solito scendono i gruppi di Avventure. Tre di noi si precipitano là, forse troveranno il gruppo che ci segue e potranno recuperare le borse dei nostri compagni. In tre rimaniamo all'Ambasciata; cominciamo a scrivere, per ogni compagno morto, un rapporto sulle caratteristiche somatiche e l'abbigliamento indossato al momento dell'incidente allo scopo di facilitarne il riconoscimento. Ci diciamo disposti a rimanere a Manila fino a quando i corpi localizzati non verranno recuperati, potremo provvedere noi all'identificazione ufficiale e risparmiare un ulteriore dolore alle famiglie. Ma qui va tutto a rilento, il Sig. R. dice che hanno mandato l'esercito, che stanno usando elicotteri per le ricerche, che tutti sono allertati; non ci crede nemmeno lui a quello che dice.

Ci sembrano così disinteressati, così lenti, così disorganizzati. Nella primavera 93 i coniugi Macchi, genitori di Antonio il cui corpo non è mai stato ritrovato nonostante fosse uno di quelli recuperati dai Casi fin dal primo giorno, si recheranno sul luogo dell'incidente. Verranno a sapere in quell'occasione che le ricerche furono portate avanti dal personale del Ten Knots, i giapponesi, e abbandonate quando si resero conto che a nessuno importava niente e nessuno li avrebbe rimborsati del carburante che stavano usando, e che da quelle parti é prezioso.

Pietro scoppia, chiama Maffettone dell'Ansa di Singapore e, per quaranta minuti, continua a denunciare le lentezze e il disinteresse per il recupero delle salme. Vorremmo che la stampa riprendesse queste cose e non l'aspetto macabro della vicenda. Da quanto mi dice mia madre ormai la notizia dell'incidente è rimbalzata su tutti i giornali, al telegiornale, siamo sulle prime pagine delle testate più importanti.

Noi vorremmo approfittare dell'interesse ancora vivo per essere di aiuto al recupero delle salme, per fare nascere il caso sull'incompetenza delle nostre autorità a Manila e sul loro completo disinteresse. Purtroppo la denuncia di Pietro verrà riportata solamente da due testate locali, la "Gazzetta di Modena" e la "Nazione" di Firenze. Il resto dei media continuerà nel dare notizie a volte inesatte e a sparare sentenze, di certo aiutati dalle dichiarazioni dell'ambasciatore che, non contento di non essersi interessato veramente all'approfondimento di quanto accaduto, in una diretta telefonica ai TG nazionali dichiarerà che la barca su cui viaggiavamo si era rotta ed eravamo stati investiti da un tifone.

Macché rotta! Ma quale tifone? Eravamo sovraccarichi, questo sì, ma il temporale, e non il tifone, è arrivato dopo CINQUE ore che stavamo in acqua, quando, se avessimo avuto salvagenti o razzi di segnalazione, il problema si sarebbe potuto risolvere subito. Quando, se avessimo viaggiato di giorno, avremmo potuto essere avvistati e tratti in salvo nel giro di poco tempo. La barca ha resistito indenne fino all'ultima onda che ha travolto tutti noi e strappato la corda dell'ancora. Solo lo schianto sugli scogli l'ha sfasciata.

Successivamente ci è addirittura giunta all'orecchio la voce, probabilmente messa in giro dai filippini per difendersi, che eravamo tutti ubriachi e i nostri movimenti sguaiati avevano fatto capovolgere l'imbarcazione. Ubriachi? Non toccavamo alcool da giorni, forse dalla cena per il compleanno di Giorgio festeggiato a Puerto Galera il 22 agosto. E nessuno di noi era bevitore, giusto la birra, quando c'era, a cena. Durante la sosta a Liminangcong per l'acquisto della vernice nessuno del gruppo era sceso a terra, come potevamo essere ubriachi?

Quello che ci ha investito durante la notte ma soprattutto al mattino è stato un temporale violentissimo, ma pur sempre un temporale. Insisto su questo punto perché un tifone, anche da queste parti, è un fatto eccezionale che può essere classificato negli avvenimenti "imponderabili" mentre un temporale non può essere considerato fatto eccezionale nella stagione delle piogge e dei monsoni. E da queste parti, in agosto, i temporali arrivano molto velocemente e possono essere di estrema violenza.

[…]

Mia madre mi informa che il nostro rientro è previsto per sabato 31 agosto, vuole sapere dove arriveremo. Noi non ne sappiamo niente, il Sig. R. continua a dirci che torneremo come previsto il 3 settembre e si sta adoperando per farci avere i duplicati dei biglietti aerei. La Europ Assistance ci ha già contattato, anche loro si danno da fare per farci rientrare ma non ci dicono niente di preciso. Vogliono sapere se siamo in grado di camminare, il dott. Fontana ci comunica che avremo sei ambulanze ad attenderci, ci porteranno alle nostre città di provenienza.

Pietro è infuriato, nonostante le sue condizioni siano le più gravi.

    «Ma quali ambulanze? Datevi da fare per recuperare i corpi, noi stiamo bene, qui ci fanno girare a piedi!»

Continuiamo a ricevere telefonate da giornalisti che si spacciano per amici o parenti delle vittime. Tutti vorrebbero farci dire cose che al momento non abbiamo ancora avuto modo di esaminare con calma, eventuali responsabilità dell'accompagnatore e dell'agenzia, colpe di questo o di quello. Non ci sentiamo, in questo momento, di rilasciare dichiarazioni prima di aver riflettuto un attimo e soprattutto prima di aver risolto i problemi che ci stanno più a cuore: la ricerca e il recupero dei nostri compagni, il contatto con le famiglie degli scomparsi.

Sono le cinque di pomeriggio, il Sig. R. ci dice che l'Ambasciata ha già chiuso da tre ore, anche noi dobbiamo andarcene. Ma come, con tutta questi problemi da risolvere ve ne andate a casa? Chiudete gli uffici? Ma i parenti dove potranno trovare un punto di riferimento, cercare notizie?

Siamo allibiti ma lui è molto deciso. Gli uffici adesso chiudono. Sciò, fuori, ci vediamo domani.

Controvoglia torniamo all'hotel in attesa dei tre che sono ancora in giro per Manila.

Arriveranno più tardi, nessuna traccia del gruppo che dovrebbe seguirci, ma sono riusciti a recuperare le borse di Gigi e di Giorgio. Vederle è un tuffo al cuore. Gigi e Lorena avevano acquistato dei souvenir e li avevano lasciati all'Aurelio. È l'unica cosa di loro che a tutt'oggi è tornata in Italia.

Anche all'hotel continuano le telefonate. Siamo esausti, affamati. Andiamo a cercare un posto per cenare e poi ce ne andiamo a dormire.


Venerdì 30 agosto 1991

Il nostro riposo è stato ancora disturbato dai giornalisti. Ma non hanno ritegno? Ma che cosa si credono che siamo, carne da macello? Il nostro disappunto è ai massimi livelli e ancora di più ci chiudiamo in noi stessi. Basta, da ora in poi solo parenti. Forse questo nostro riserbo ha spinto all'invenzione delle notizie che i giornalisti continuano a perpetrare, ma non ne possiamo più. L'unica cosa che vorremmo è un po' di calma, tempo per riflettere, per rimetterci in sesto.

La Europ Assistance ci richiama, l'imbarco è previsto per questa sera alle nove, volo Lufthansa su Francoforte, poi volo privato fino a Milano. Vorrebbero farci volare fino alle città da cui siamo partiti ma ci rifiutiamo. Preferiamo stare insieme il più possibile e anche le due ore da Francoforte a Milano ci serviranno.

A piedi torniamo all'Ambasciata e ci rimettiamo a disposizione. Il poliziotto che sta all'ingresso e deve annunciare i visitatori parla di noi come i "survivors", i sopravvissuti.

Ho una ferita che comincia a suppurare, mi fa molto male. Lascio i miei compagni e vado all'ospedale per un'altra medicazione. Al pronto soccorso incontro due ragazze francesi, ci mettiamo a parlare. Racconto quanto ci è successo, una delle due impallidisce e scoppia a piangere. Loro sono appena tornate da El Nido, hanno viaggiato sulle barche come noi, hanno avuto molta paura. All'Embarcadero di Tay Tay hanno saputo, da altri turisti di passaggio, che era appena successo un naufragio. Sono stravolte, mi dicono che era inevitabile che un fatto del genere succedesse, che gli uffici turistici filippini dovrebbero dare più notizie, che non si può mandare la gente allo sbaraglio in questo modo. Dovrebbero fare di più per informare la gente, e, quando dico che noi non eravamo turisti solitari ma stavamo percorrendo un itinerario proposto da una agenzia, inorridiscono.

    «Ma non vi avevano informati sull'itinerario? Se io avessi saputo quello che mi aspettava non sarei mai partita! Le guide parlano di El Nido come di un luogo stupendo, anch'io volevo vederlo. Ma una agenzia deve sapere, deve informare i clienti. Come è possibile?»

È agitatissima, non riesce più a seguire i discorsi in inglese, passa al francese. Dice che quando hanno saputo del nostro incidente erano state prese dal panico. Si erano rese conto che anche a loro sarebbe potuto accadere quello che è successo a noi, che dobbiamo fare qualcosa, sensibilizzare l'opinione pubblica. Lei lo farà non appena rientrata in Francia.

Mi lascia il suo indirizzo, aggiunge che è a mia disposizione se avrò bisogno di testimonianze, di contattarla, farle sapere. Mentre torno all'ambasciata rifletto su quanto mi ha detto. Ma davvero l'agenzia non sapeva? Come è possibile che nessuno abbia mai parlato di questo percorso pericoloso, che nessuno abbia mai messo in guardia i gruppi sull'uso di queste barchette così instabili? Possibile che nessun gruppo prima di noi si sia trovato in difficoltà, che nessuno abbia riscontrato il pericolo di questo percorso in mare aperto?

L'agenzia "Avventure nel Mondo" propone lo stesso itinerario da diversi anni, con parecchie partenze all'anno e senza differenze tra estate e inverno. Dovrebbero essere informati sulle caratteristiche dei luoghi dove fanno arrivare tanta gente, dovrebbero conoscere le peculiarità dei mezzi di trasporto da utilizzare, il fatto che spesso sono privi delle dotazioni di sicurezza più elementari. Perché non ci hanno detto niente prima di partire? Abbiamo seguito le tracce lasciateci dai gruppi che avevano visitato questi luoghi prima di noi, abbiamo percorso le stesse tappe, utilizzato gli stessi mezzi. Non ci siamo inventati niente di nuovo. Le visite a El Nido e Pangalusian erano presentate anche sul programma di massima con cui l'agenzia illustra il viaggio. Sono frastornata, quanto mi ha detto la ragazza francese collima con le parole di Becky Gordon.

Verrò successivamente a sapere che ben due gruppi di Avventure nel Mondo, in due anni diversi, avevano incontrato difficoltà serie sullo stesso percorso. Un altro gruppo aveva tratto in salvo dei viaggiatori francesi che stavano andando alla deriva. Da una lettera inviatami da Corazon vengo a sapere che non siamo il primo gruppo che arriva a Kiminawit in cerca di aiuto. PERCHÉ solo noi non sapevamo niente? L'Agenzia sapeva? Gigi sapeva? Dovremo senz'altro riflettere su questo punto, cercare di andarci in fondo. E dovremo soprattutto fare in modo di sensibilizzare l'opinione pubblica sui rischi, spesso gratuiti e dovuti a scarsa informazione e negligenza da parte di chi organizza i viaggi, connessi a questo modo di viaggiare.

All'Ambasciata trovo i compagni ancora occupati ai telefoni. Siamo "l'unità di crisi", quella vera.

Non quella fredda e inefficiente istituita dal ministero a Roma. Da quando siamo arrivati a Manila l'argomento "incidente" è quasi tabù. Cerchiamo di non pensare e di non parlare degli aspetti più vivi e dolorosi di questa tragedia che ci ha visto involontari protagonisti e dedichiamo le ultime energie ai risvolti più pratici della faccenda. Avremo tempo per parlare dei momenti più intimi e personali di tutte quelle ore trascorse in mare, degli ultimi istanti trascorsi in compagnia dei nostri amici più sfortunati. Avremo tempo per riandare con la memoria a quelle ore nella giungla, quando la speranza della salvezza si faceva sempre più lontana. Avremo tempo per cercare di analizzare insieme le sensazioni provate, i sensi di colpa che continueranno ad affliggerci per non essere stati in grado di fare qualcosa di più per chi non ce l'ha fatta. Avremo tempo per cercare di amalgamare questi frammenti di vita, per rimettere insieme i mille pezzi che questa esperienza atroce ha fatto di noi, lasciandoci fisiologicamente vivi ma da ricostruire sotto tutti gli altri aspetti. Sono convinta che i rapporti interpersonali d'ora in poi saranno forse più difficili, la paura di perdere di nuovo amici a cui eravamo affezionati. Riusciremo a tornare quelli di prima? Non credo, ma avremo tempo. E tanto tempo e calore e solidarietà saranno necessari per imparare a convivere con questa cosa più grande di noi. Ormai è l'ora di andare, sono le due e il personale dell'Ambasciata ha fretta di chiudere. Il Sig. R. ci saluta, con uno slancio di sensibilità ci dice che questa "avventura" al governo Italiano è costata poco, sono stati fortunati. Eravamo tutti assicurati e a noi ha provveduto la Europ Assistance. Non manca di farci notare che abbiamo fatto troppe fotocopie e troppe telefonate, e queste sono a carico dell'Ambasciata.

Ci guardiamo senza parole. Complimenti! Anche a nome dei nove amici morti e delle loro famiglie.

Sulla porta ci raggiunge un signore italiano che non avevamo mai visto. Ci dice che, avendo potuto acquistare solo poche cose con i soldi che ci hanno dato, sull'aereo avremo freddo. Vuole sapere in che hotel alloggiamo e poco dopo arriverà con un pacco di roba sua, maglioni e camicie pesanti. Dopo i numerosi filippini, è l'unico connazionale che ci ha dimostrato un po' di umanità e comprensione. Grazie.

Alle sei un incaricato filippino della Europ Assistance viene a prelevarci. Ci porta all'aeroporto dove intanto sta arrivando il medico che ci hanno mandato dall'Italia. Ci informa che altri tre corpi sono stati localizzati, ci sembra di capire che anche questi sono arrivati sulla spiaggia di Pangalusian, ma non riusciamo ad avere maggiori informazioni. In tutto sarebbero quindi sette. Ci sentiamo un po' più tranquilli, forse si stanno veramente dando da fare.

Quanto seguirà sarà una smentita. Alla metà di settembre verranno rimpatriate le prime quattro salme: Teresa Cane, Alessandra Bonechi, Giorgio e Giovanna Cabodi. Il destino non li ha voluti separare: Giorgio e Giovanna sposati da più di venti anni; Alessandra e Teresa amiche di vecchia data, da anni viaggiavano insieme. Massimo e Antonio che erano sugli scogli che fine hanno fatto? Non li hanno recuperati? Questa è una cosa che ancora oggi ci lascia perplessi. I quattro di Varese, amici tra di loro, partiti insieme e dispersi insieme. Angela, l'amica di Flavio, pure dispersa.

A maggio 92 verranno rimpatriati i resti di altre tre persone. Solamente una identificata subito, Massimo Nai, sepolto nella tomba di famiglia a Cassolnovo (Pv) il 6 giugno 1992.

A Luglio 92 verrà identificata anche Angela Marcesini, sepolta ad Agliana (Pt) il 25 luglio.

Ai resti della terza persona, sicuramente di sesso femminile, non sarà possibile dare riconoscimento ufficiale. Sappiamo che è Lorena, l'ultima ragazza mancante. Ma non possono dare riconoscimenti ufficiali per esclusione. I resti verranno sepolti al cimitero di Gallarate, per interessamento della giunta comunale, e verranno apposti sulla tomba i nomi dei tre scomparsi: Lorena Volpato, Antonio Macchi, Luigi Andrusiani. Di Gigi e Antonio forse non si saprà più niente.

Sapremo anche che le ricerche sono state condotte da privati cittadini filippini mossi forse da spirito di solidarietà. Come già detto si tratta ancora dei giapponesi e della famiglia Gordon-Casi. Saranno costretti a interrompere le ricerche per mancanza di fondi e per il disinteresse da parte delle autorità locali e italiane.


All'aeroporto veniamo presi in custodia dal personale della Lufthansa, in attesa del medico che sta arrivando. Con le ultime monetine rimaste dal prestito concesso dal governo Italiano ci comperiamo una Coca Cola. Una in sei.

Verso le otto arriva il medico. Si chiama Mimmo Cornero, un ragazzone dalla faccia simpatica, 2.03 metri di altezza. È appena sceso dal volo dall'Europa e già deve ripartire. Ha viaggiato in classe economica, sta ancora cercando di districare le lunghe membra. Ci controlla le ferite, per il momento le medicazioni reggono, poi ci farà dei bendaggi nuovi.

Dice che dall'inizio del mese sta viaggiando per gli aeroporti di mezzo mondo per portare a casa incidentati della "Avventure nel Mondo", ha appena rimpatriato, con un volo sanitario, un gruppo di 17 persone rimaste ferite in un brutto incidente in Kenya.

Siamo pronti per partire, Mimmo è contento. Si sta sciroppando 40 ore di aereo nonstop, ma il ritorno, con noi feriti, sarà in business-class e lui potrà stendere un po' le gambe. Ci aspettano 4 ore di volo, poi scalo a Bangkok e ancora otto ore prima di atterrare a Francoforte dove verremo presi in carico da altro personale Europ Assisstance.

Mentre ci lasciamo alla spalle le luci di Manila ripenso alla gente conosciuta in questi giorni. I pescatori di Kiminawit, la famiglia di Rebecca, il personale dell'Ambasciata. Non posso fare a meno di paragonare la sensibilità e l'affetto degli uni con la freddezza e il disinteresse degli altri.

Dall'agenzia romana che ci ha organizzato il viaggio il silenzio è stato quasi assoluto. Una telefonata dell'impiegata di turno, nessuna chiamata dai titolari che con i loro clienti e soci non perdono occasione di ribadire che "siamo una grande famiglia, siamo vostri amici". Di amici così francamente ne faccio a meno.

"Vi aspettiamo alle nostre feste e alla nostra sede di Mentana, portate del vino buono".

Forse per il loro portafogli finisce tutto a tarallucci e vino.

Guardo Manila che si allontana. Sto lasciando qui un pezzo di me. Un capitolo della mia vita si è chiuso il 27 agosto 1991, un altro si è aperto ed è pieno di incognite. Sto portando via aspetti del mio carattere che non conoscevo, l'affetto di persone sconosciute che ci sono state vicino, un legame fortissimo con i miei cinque compagni sopravvissuti che ora sono come fratelli, più che fratelli.

Tornerò. Non so quando ma tornerò. Lo devo agli amici scomparsi la cui tomba è là nel mare, lo devo a chi mi ha aiutato. Lo devo soprattutto a me stessa, perché la ricomposizione di me non sarà completa fino a quando non sarò tornata.

Sabato 31 agosto 1991

Sull'aereo abbiamo trovato tre ragazzi napoletani che avevamo conosciuto all'andata. Ci chiedono che fine hanno fatto gli altri, perché siamo così malandati. Che cosa è successo?

Come spiegare?

[…]





LA GAZZETTA   31-8-91

L'ambasciatore d'Italia Mario Crema ha assicurato che da parte italiana sono stati fatti e si continueranno a fare tutti i passi per il rispetto e le procedure umanitarie e legali. «Sono intervenuto personalmente con il capo di stato maggiore dell'aviazione filippina gen. Loven Abadia e ho sollecitato l'impiego di forze aeree per il recupero delle salme. Debbo dire che mi è stata data la massima collaborazione» ha affermato l'ambasciatore Crema aggiungendo: «Se ritardo c'è stato, questo è da imputare alla difficile accessibilità della zona ed alle condizioni atmosferiche pessime nella stagione dei monsoni».